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Si può revocare la rinuncia all’eredità?

24 Ottobre 2022
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Come annullare la precedente rinuncia; fino a quando si è in tempo per cambiare la propria scelta; cosa succede se nel frattempo qualcun altro è subentrato.

L’accettazione dell’eredità è una scelta definitiva, che non ammette ripensamenti: nemmeno quando, in seguito, ci si accorge che il patrimonio ricevuto è gravato da pesanti debiti e perciò non è affatto conveniente. Invece chi ha rinunciato all’eredità può ancora ripensarci, e, in un momento successivo, decidere finalmente di accettare.
Quindi si può revocare la rinuncia all’eredità, ma bisogna farlo entro certi termini e rispettando alcune condizioni: non si tratta di una facoltà esercitabile a piacimento, perché bisogna considerare anche gli interessi degli altri chiamati all’eredità e dei creditori del defunto.

Indice

1 Rinuncia all’eredità: cos’è e a cosa serve
2 Rinuncia all’eredità: come si fa
3 Rinuncia all’eredità: condizioni
4 Rinuncia all’eredità: termini
5 Revoca della rinuncia all’eredità: quando è ammessa
6 Revoca di rinuncia all’eredità: come si fa

Rinuncia all’eredità: cos’è e a cosa serve

Mentre chi accetta l’eredità decide di subentrare nella quota ad egli spettante del patrimonio del defunto, che comprende sia i rapporti attivi sia quelli passivi (cioè i debiti), chi rinuncia all’eredità “si chiama fuori” da tali vicende, e di solito lo fa proprio al fine di non essere considerato erede, in modo da non dover rispondere, con il proprio patrimonio personale, degli eventuali debiti lasciati dal de cuius.

Quindi nessun creditore, pubblico o privato, della persona defunta potrà bussare alla porta di chi ha rinunciato all’eredità per pretendere pagamenti. Ovviamente, così facendo il rinunciante non subentra neanche nella parte attiva del patrimonio di chi è deceduto, e perciò non potrà vantare alcun diritto sui beni ereditari.
Rinuncia all’eredità: come si fa

La rinuncia all’eredità deve essere esplicita (a differenza dell’accettazione, che potrebbe anche avvenire in modo tacito, disponendo direttamente dei beni ereditari di cui si è entrati in possesso). Tecnicamente, la rinuncia all’eredità consiste in una espressa e formale dichiarazione di non voler accettare di ricevere in eredità il patrimonio lasciato dal defunto, o la quota di esso spettante.

Questa dichiarazione di rinuncia all’eredità, per produrre gli effetti giuridici che abbiamo descritto, deve essere ricevuta da un notaio, oppure dal cancelliere del tribunale del luogo in cui si è aperta la successione. Il pubblico ufficiale che ha ricevuto la dichiarazione di rinuncia la inserisce nel registro delle successioni, in modo che l’atto sia consultabile da chiunque ne abbia interesse.
Rinuncia all’eredità: condizioni

La rinuncia all’eredità per avere validità ed efficacia, deve essere piena ed integrale, in modo da comprendere tutti i beni ereditari, o l’intera quota di spettanza sugli stessi, e non può essere limitata solo ad alcuni o ad una loro parte (ad esempio: rinuncio alla casa, perché è fatiscente, ma voglio comunque il box di pertinenza). Inoltre non deve contenere termini di efficacia o condizioni dipendenti dal comportamento altrui (ad esempio: rinuncio solo se mio fratello fa altrettanto).

La rinuncia all’eredità deve essere anche totalmente gratuita, altrimenti, se viene fatta verso un corrispettivo (come una somma ricevuta dagli altri coeredi in cambio del rilascio della dichiarazione) ottiene l’effetto contrario, e comporta per legge [1] l’accettazione dell’eredità.
Rinuncia all’eredità: termini

L’art. 480 del Codice civile stabilisce che il diritto di accettare l’eredità si prescrive in 10 anni; anche la rinuncia all’eredità soggiace al medesimo termine. Solo nella particolare ipotesi di accertamento giudiziale dello stato di figlio della persona defunta, il termine decennale entro cui inizia a decorrere non dalla sua data di morte, bensì dalla data di passaggio in giudicato della sentenza che dichiara la paternità.

 

Se il rinunciante era già entrato in possesso dei beni ereditari – è la situazione tipica di chi conviveva con il defunto, o disponeva delle sue proprietà – i termini per accettare o per rinunciare all’eredità sono molto più ristretti: bisogna fare l’inventario dei beni entro tre mesi dalla data di apertura della successione e decidere l’eventuale rinuncia entro i successivi 40 giorni, altrimenti – come prevede l’ art. 485 del Codice civile – il chiamato all’eredità che non ha ancora rinunciato espressamente si considera «erede puro e semplice».

Chi, invece, ha sottratto, o nascosto, i beni ereditari decade automaticamente dal diritto di rinunciare o dall’eventuale rinuncia all’eredità già fatta, che perciò non ha alcun valore: l’art. 527 del Codice civile considera questi soggetti come «eredi puri e semplici, nonostante la loro rinunzia».
Revoca della rinuncia all’eredità: quando è ammessa

La revoca della rinuncia all’eredità è disciplinata dall’articolo 525 del Codice civile in questo modo: «Fino a che il diritto di accettare l’eredità non è prescritto contro i chiamati che vi hanno rinunziato, questi possono sempre accettarla, se non è già stata acquistata da altro dei chiamati, senza pregiudizio delle ragioni acquistate da terzi sopra i beni dell’eredità».

Questo significa, in termini pratici, che la revoca della rinuncia all’eredità è possibile finché non sono trascorsi 10 anni dalla data di apertura della successione, a meno che la quota ereditaria del rinunciante non sia stata già acquisita, nel frattempo, mediante accettazione (espressa o tacita), compiuta da un altro chiamato all’eredità, come un figlio del rinunciante.

Alcune situazioni, però, potrebbero rivelarsi complesse: ad esempio, una recente sentenza della Cassazione [2] ha ritenuto ammissibile la revoca della rinuncia all’eredità effettuata dal padre prima che scadesse il termine assegnato dal giudice al figlio chiamato “per rappresentazione“, ossia al posto del suo genitore. La Suprema Corte ha ritenuto che «il chiamato all’eredità che vi abbia inizialmente rinunciato può successivamente accettarla in forza dell’originaria delazione e sempre che questa non sia venuta meno in conseguenza dell’acquisto compiuto da altro chiamato» all’eredità.
Revoca di rinuncia all’eredità: come si fa

Mentre la rinuncia all’eredità deve essere espressa e formale, la revoca della rinuncia potrebbe avvenire non solo con una “controdichiarazione” rilasciata al notaio o al cancelliere del tribunale, per annullare gli effetti del precedente atto, ma anche in modo tacito, ossia in modo analogo a quello che si compie con l’accettazione tacita dell’eredità: infatti è evidente che la revoca di una precedente rinuncia fatta comporta l’accettazione piena (e tale scelta, come abbiamo visto, è irrevocabile: quindi, una volta revocata la rinuncia, non si potrà più revocare tale revoca, nel tentativo di rinunciare all’eredità).

Tuttavia, per prevenire eventuali contestazioni degli altri coeredi, è sempre preferibile fare la revoca di rinuncia all’eredità in modo esplicito, quindi recandosi dal notaio o dal cancelliere per formalizzare tale decisione; anche perché esiste un orientamento della giurisprudenza che non ritiene valida la revoca tacita di una precedente rinuncia, e perciò potrebbero sorgere conflitti giudiziari.

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Quali beni rientrano nella vendita di una casa?

Il proprietario è tenuto a cedere mobili, sanitari e impianti al compratore? Ecco cosa dicono la legge e la Cassazione.

Hai mai pensato che se compri una casa potresti avere diritto ai mobili, alle lampade e a tutto il resto? Conviene che lo sappia chi vende perché, altrimenti, rischia di doverti lasciare divani, letti, cassettoni, tappeti e quant’altro. Lo ha ricordato in una sentenza recente la Cassazione, che ha ribadito quali beni rientrano nella vendita di una casa. E, soprattutto, a quali condizioni è possibile evitare di consegnare tutto quanto al futuro proprietario insieme all’imm

 

È una questione di dettagli, piccoli ma fondamentali, a cui si deve badare al momento di redigere il contratto preliminare di compravendita, cioè il cosiddetto compromesso. Quando si sottoscrive un documento che ha valore giuridico, come in questo caso, non c’è più spazio per le interpretazioni: fa fede quello che c’è scritto e firmato dalle parti. Vediamo quali sono, secondo la Cassazione, questi «piccoli ma fondamentali dettagli» che possono incidere sui beni da consegnare quando si vende una casa.

Come deve essere venduto un immobile?

Il Codice civile stabilisce che, al momento di trasferire la proprietà di un bene, «la cosa deve essere consegnata nello stato in cui si trovava al momento della vendita» [1]. La norma aggiunge: «Salvo diversa volontà delle parti, la cosa deve essere consegnata insieme con gli accessori, le pertinenze e i frutti dal giorno della vendita. Il venditore deve pure consegnare i titoli e i documenti relativi alla proprietà e all’uso della cosa venduta».

Ecco, quindi, che il Codice ci fornisce quei «dettagli» indicati nell’ordinanza della Cassazione. Il primo, il fatto che «la cosa», vale a dire «la casa», deve essere consegnata così com’era al momento della vendita. Non è lecito, insomma, mostrare un immobile in un modo al potenziale acquirente, convincerlo a comprarlo, firmare un preliminare sulla base di quant’è stato visto e poi fargli trovare una cosa diversa.

Ma è soprattutto il passaggio successivo quello che può passare inosservato e che, invece, riveste enorme importanza: la casa deve essere consegnata «insieme con gli accessori, le pertinenze e i frutti dal giorno della vendita». Il tutto, ovviamente, sempre che le parti non raggiungano un accordo diverso.
Cosa rientra nella compravendita della casa?

Quali sono quegli accessori di cui parla il Codice civile che devono essere consegnati insieme alla casa? Lo si capisce meglio esaminando il caso di cui si è occupata la Cassazione [2]. La vicenda riguardava una coppia che si era impegnata nel preliminare di compravendita del loro immobile a cederlo nel modo in cui era stato mostrato all’acquirente. Il quale, al momento di firmare il contratto definitivo, si rende conto che, nella descrizione dei beni di cui sarebbe entrato in possesso, mancavano delle cose esistenti quando era stato fatto il compromesso: mobilia, sanitari, luci, impianti.

Secondo i giudici, una condotta del genere integra la violazione della clausola di buona fede nell’esecuzione del contratto e fa scattare per il venditore l’obbligo di risarcimento per il ripristino degli accessori prelevati.

Va sottolineato, inoltre, che non è l’acquirente ma il venditore a dover dimostrare che sta consegnando la casa com’era stata mostrata. E che le parti possono raggiungere un accordo diverso, precisando per iscritto su quali beni entrerà effettivamente in possesso il compratore.

Allo stesso modo, il concetto potrebbe essere ribaltato a discapito dell’acquirente. Si pensi al caso di chi vede una casa senza porte e finestre e decide di comprarla: non può pretendere dopo la firma del contratto definitivo di trovarsi l’immobile dotato di porte e finestre, poiché non c’erano nel momento in cui l‘appartamento gli è stato mostrato.

Ma se al momento di sottoscrivere il preliminare la casa era dotata di mobili, lampadari, sanitari e altri oggetti di arredo e le parti non dicono alcunché in contrario, l’immobile deve essere consegnato «così com’è stato mostrato», cioè con tutti quegli accessori.

Visto su : La legge per tutti

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